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lunedì 6 maggio 2013

L'AUTOTUTELA NEL DIRITTO TRIBUTARIO

L’Autotutela nel diritto tributario
Interesse pubblico e diritti del contribuente

di
Antonio Mauriello e Alessandra de Rosa

studiomauriello@live.it - alessandra.de_rosa@libero.it




ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI
E DEGLI ESPERTI CONTABILI DI AVELLINO


Avellino 06/05/2013





Sommario: 1. Introduzione. – 2. Aspetti Generali. – 3. Collocazione normativa dell’Autotutela. – 4. L’Autotutela dell’ufficio. – 5. Ratio iuris e la questione della discrezionalità. Differenze con l’Autotutela amministrativa. – 6. Conclusioni.

  1. Introduzione
L'autotutela nasce come istituto di diritto Amministrativo e rappresenta una manifestazione del potere di riesame dell'Amministrazione, i cui riferimenti costituzionali sono da ricercarsi nei principi di buon andamento e di imparzialità, di cui agli artt. 97 e 98 Costituzione Repubblicana, cui la Pubblica Amministrazione deve sempre uniformarsi.
In questa sede si è indotti a domandarsi quali siano in concreto le differenze tra autotutela tributaria e autotutela amministrativa.
L'autotutela tributaria presenta una connotazione specifica, diversa da quella amministrativa. In campo amministrativo, infatti, vi è un bilanciamento di interessi, diverso da quello tributario, laddove l'esercizio dell'autotutela, oltre a dover conformarsi ai principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento, deve tener anche conto dei principi costituzionali che presiedono al prelievo tributario ed in particolare del principio in base al quale tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva (art. 53 Cost.).
Nel diritto tributario la discrezionalità dell'esercizio del potere di autotutela dovrà, dunque, esplicarsi nel rispetto di tali inderogabili valori costituzionali. L'esercizio del potere di annullamento d'ufficio trova quindi le sue ragioni di legittimità nella sussistenza congiunta:
a) dell'illegittimità dell'atto
b) di uno specifico, concreto ed attuale interesse pubblico all'eliminazione dell'atto, diverso dal generico interesse al ripristino della legalità.
In tale secondo presupposto si può meglio notare la differenza tra i due tipi di autotutela. Tale interesse, in campo tributario, sussiste quando coincide con la necessità di assicurare che il contribuente sia soggetto alla giusta tassazione in base al principio della capacità contributiva.
Un'altra importante e sostanziale differenza tra autotutela amministrativa e autotutela tributaria risiede nel fatto che, mentre in diritto amministrativo il destinatario dell'originario atto illegittimo è titolare di un interesse legittimo, in campo tributario la posizione del soggetto passivo è di diritto soggettivo. In diritto tributario, infatti, quando si decide di eliminare un atto illegittimo, non si dovrà valutare il conflitto tra interesse pubblico alla rimozione dell'atto e quello del privato alla conservazione dello stesso, l'interesse pubblico potrà riguardare semmai il ristabilimento di una giusta imposizione.
L'interesse legittimo presuppone infatti un potere discrezionale, inteso come mediazione tra interessi, che qui invece manca. Ne consegue che l'autotutela tributaria non si sostanzia nell'esercizio di un potere discrezionale – interesse legittimo e comparazione di più interessi – bensì in un potere-dovere, diretto alla rimozione di atti impositivi illegittimi, che prescinde dal perseguimento di un interesse pubblico specifico e non incide nella sfera giuridica di un terzo interessato.
Infatti, mentre l'atto amministrativo, oggetto di successivo provvedimento di autotutela, è un atto che ha ampliato la sfera giuridica del destinatario, cosicché l'emanazione del successivo atto di annullamento ha per lui principalmente effetti negativi, in caso di autotutela tributaria vi è sostanziale coincidenza di vantaggio tra contribuente e Amministrazione: mentre il primo ottiene l'annullamento di un provvedimento per lui favorevole, la seconda ottiene il ripristino del rispetto di principi di valenza costituzionale erroneamente sacrificati con l'atto ritenuto illegittimo.
In campo tributario, quindi, l'interesse del privato all'autotutela coincide e si compenetra con l'interesse alla legalità dell'azione amministrativa.
Un'altra sostanziale differenza tra autotutela amministrativa e quella tributaria va ricercata nella mancanza, in quest'ultima, della discrezionalità nell'esercizio del potere, in quanto essa va annoverata in quell'attività legislativamente vincolata che incide su posizioni di diritto soggettivo del contribuente. L'attività legislativa vincolata trova il suo fondamento nel principio dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria.
A presiedere la tutela del contribuente e per evitare l'inerzia dell'Amministrazione finanziaria dietro semplice istanza di riesame in autotutela, è utile ricorrere all'Istituto della cd diffida ad adempiere amministrativa. La diffida amministrativa, ex legge 241/1990, non è altro che l'intimazione rivolta all'Amministrazione finanziaria di rimuovere l'atto illegittimo nel termine stabilito dalla legge che solitamente nel campo tributario è di 30 giorni. V. infra
  1. Aspetti generali

Per quanto ampi, diversificati e socialmente rilevanti possono essere i fini che un moderno Stato di diritto può perseguire, esiste un dato ineliminabile che è in grado di contribuire, consentire e permettere il soddisfacimento del pubblico interesse, vale a dire la disponibilità di risorse materiali impiegabili per la sua realizzazione. Il prelievo tributario costituisce lo strumento attraverso cui lo Stato riesce sia ad autoalimentarsi sia a creare e a sostenere attività giuridiche e sociali volte al soddisfacimento degli interessi della collettività imponendo alla stessa degli oneri di contribuzione a tal riguardo.
Le prestazioni imposte di accezione tributaria sono, in ogni caso, presidiate da principi garantistici sia sotto il profilo della giustizia sostanziale, intesa nel senso che tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, sia sotto il profilo della garanzia formale con riferimento al rispetto del principio di legalità, nonché di imparzialità e di buona amministrazione da parte dell’amministrazione finanziaria.
Le sfide delle moderne società civili, in termini di nuove e sempre crescenti esigenze di benessere sociale, impongono agli Stati che a ciò ambiscono di massimizzare le proprie risorse evitando sia gli sprechi sia i fenomeni dell’evasione e dell’elusione dell’imposizione tributaria. In ossequio al principio cardine del suo agire, vale a dire al principio di legalità, l’amministrazione finanziaria persegue solo ed esclusivamente fini collettivistici, facendosi giustizia da sé nel momento in cui riscontra un suo errore. Questa è l’essenza dell’autotutela che vede sempre e comunque l’amministrazione finanziaria quale soggetto portatore del potere pubblicistico d’imposizione tributaria rispetto al quale il cittadino è titolare di un interesse legittimo1.

  1. Collocazione Normativa dell’Autotutela

Il regolamento di attuazione del potere di autotutela si trova nel Decreto ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37, che fa seguito all’articolo 2 quater della legge n. 656 del 30 novembre 1994, mentre il potere discrezionale di cui trattasi, è stato sancito dall’articolo 68 del D.P.R. n. 287 del 27 marzo 1992 concernente il regolamento del personale del Ministero delle finanze dove si recita “salvo che sia intervenuto giudicato, gli uffici dell’amministrazione finanziaria, possono procedere all’annullamento, totale o parziale, dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati con provvedimento motivato notificato al contribuente”. In quest’ultimo caso, in ossequio ai principi di cui all’art 1 della legge 241/1990 in materia di azione amministrativa, gli uffici possono annullare i propri atti, dopo averli ritenuti infondati o illegittimi, al fine di evitare un contenzioso già avviato dal contribuente, destinato a terminare negativamente2.

  1. L’Autotutela dell’ufficio.

Il diritto tributario è un insieme intricato di norme e di direttive, alcune volte in contrasto fra loro, le cui particolarità rispetto ai principi generali del diritto amministrativo afferiscono la disciplina legale della prestazione tributaria sul cui ammontare l’amministrazione fiscale non può esercitare valutazioni di opportunità e convenienza3.
In ogni caso, esso offre la possibilità di cautelarsi nei confronti di tali norme, laddove si riscontri un comportamento illecito o un provvedimento illegittimo da parte dell’amministrazione finanziaria. Quest’ultima, in quanto pubblica amministrazione, ha il potere di emanare provvedimenti e, come conseguenza, di annullare, revocare o sospendere gli stessi, qualora li reputasse illegittimi in base ad una valutazione compiuta ex post, fermo restando che il soggetto passivo di imposta può, in ogni caso, adire le vie della giurisdizione tributaria avverso i provvedimenti che egli stesso reputasse illegittimi.
La rimozione dell’atto da parte dell’amministrazione, rientra nell’ambito del potere di riesame attraverso un procedimento di secondo grado. L’amministrazione ha la facoltà di correggersi, ovvero di procedere alla rimozione degli atti illegittimi per i seguenti fini:
  • realizzare l’interesse pubblico;
  • ripristinare la legalità;
  • ricercare nello stesso ordine amministrativo una soluzione alle potenziali
controversie insorte evitando il ricorso a mezzi giurisdizionali in ossequio al principio
dell’economia dei mezzi giuridici;
  • migliorare il rapporto con i cittadini favorendo, in sede di riesame dell’atto, quel
contraddittorio che può essere mancato in sede di deliberazione dell’atto impugnato4.
In questi casi si parla di autotutela dell’amministrazione finanziaria, identificata nel potere di salvaguardare l’azione amministrativa degli uffici finanziari attraverso strumenti di difesa e di prevenzione del contenzioso, come l’annullamento, la rinuncia o la revoca dei propri atti riconosciuti illegittimi.
Nel suo significato più ampio, l’autotutela equivale a farsi giustizia da sé nei rapporti con i terzi. Infatti, essa presenta due aspetti complementari: il primo è costituito dall’esecutorietà dell’atto amministrativo; il secondo è costituito dalla possibilità del suo autoannullamento. Il diritto amministrativo, che ha la stessa età dell’amministrazione, ha registrato fin dall’inizio la possibilità o di imporre la propria volontà oppure di modificarla o anche di cancellarla manifestando in pieno la sua competenza fino alla più totale realizzazione. Il diritto tributario, scaturito per partenogenesi dal primo, ma tra mille difficoltà concettuali e pratiche, ha tardato ad inglobare, almeno formalmente e con carattere di generalità, disposizioni da sempre presenti nell’ordinamento positivo5.

  1. Ratio iuris e la questione della discrezionalità. Differenze con l’Autotutela Amministrativa

Secondo gran parte della più autorevole dottrina, l’autotutela dovrebbe essere considerata espressione dello stesso potere impositivo trovando la sua ratio nel fatto che le funzioni amministrative non possono non comprendere in sé, accanto alla possibilità di fare, anche quella di eliminare ciò che non doveva farsi. Se si colloca, invece, l’autotutela all’esterno della funzione impositiva si finisce col configurare l’imposizione tributaria come ingiusta delineandosi dei rimedi extra ordinem per il contribuente che non ha tempestivamente impugnato l’atto in sede giurisdizionale.
A sostegno della pretesa diversità tra l’autotutela amministrativa e quella tributaria, si pone l’ulteriore valutazione secondo cui in relazione agli atti tributari che incidono negativamente nella sfera giuridica soggettiva del contribuente, non sono configurabili situazioni di contro-interesse all’annullamento del provvedimento diverse da quelle riferibili all’interesse dell’erario ad incamerare gli importi accertati: l’unico interesse che potrebbe muovere l’annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari è quello al ripristino della legalità violata, il che implica che l’autotutela dell’amministrazione finanziaria è priva di discrezionalità avendo essa carattere vincolato. L’annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari trova, in realtà, il suo referente nell’esigenza di buon andamento dell’azione amministrativa, frutto non di discrezionalità ma di mediazione di interessi propri dell’amministrazione.
In diritto amministrativo, ove i provvedimenti sono solitamente espressione di discrezionalità, l’annullamento d’ufficio dell’atto deve essere giustificato, oltre che dalla sua illegittimità anche da un interesse dell’amministrazione all’annullamento. In diritto tributario, invece, non essendovi discrezionalità, l’esercizio dei poteri di autotutela non presuppone valutazioni di convenienza: il ritiro o la correzione dell’atto viziato vanno compiuti in applicazione della regola di buona fede, cui deve attenersi l’amministrazione; la correzione presuppone dunque il vizio e null’altro, ossia è giustificato soltanto dal dovere di ogni pubblica amministrazione di ripristinare la legalità.6
L’autotutela tributaria è comunque finalizzata al perseguimento di un interesse dell’amministrazione finanziaria volto a tutelare il principio di eguaglianza sostanziale affinché il contribuente sia messo in condizione di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva e secondo criteri di progressività. L’eliminazione dell’atto illegittimo, nonché dell’atto insufficientemente motivato, può esplicare l’effetto di superare disparità di trattamento7.
Dunque, pur riconoscendo all’ufficio la massima discrezionalità in ordine all’an, al quando ed al quomodo per l’esercizio del potere di autotutela, tale discrezionalità non può spingersi verso la mera facoltà del riesame: se, quindi, non vi è alcun obbligo di accogliere, in tutto o in parte, le ragioni del contribuente, deve comunque ritenersi sussistere l’obbligo del riesame, con comunicazione alla parte degli esiti negativi dello stesso. In mancanza, si concretizza da parte dell’ufficio l’ipotesi di inerzia che assume la connotazione di gravità qualora il silenzio perduri anche dopo reiterate ed inevase sollecitazioni, così giustificando l’intervento sostitutivo dell’organo sovraordinato8.

  1. Conclusioni

Il diritto di autotutela nasce come forma di rivendicazione della incolumità e della dignità della persona contro la violenza e gli arbitri, affermandosi come elemento contemperatore e come strumento di attuazione di due principi opposti, autorità e libertà, che unitamente condizionano l’esistenza e la durata di un organismo sociale.
Se ritenessimo soltanto lo Stato unico soggetto titolare di diritti considereremo il rapporto tra Stato e cittadini come un rapporto di dominazione di fatto.
La necessità che lo Stato mantenga ed attui l’ordinamento giuridico da esso precostituito non offusca la medesima necessità di concretizzare la convinzione per cui il cittadino è soggetto non solo di doveri, ma anche di diritti, e non solo di diritti verso gli altri privati, ma anche verso lo Stato stesso.
E non vi è interesse, giuridicamente garantito in modo particolare, maggiore di quello di salvaguardare l’incolumità dei propri diritti di fronte alle sopraffazioni della stessa autorità, quando il cittadino troppo tardi invocherebbe l’intervento giurisdizionale.
La nozione stessa di diritto contiene in sé la legittimità della difesa. La tutela dei diritti è affidata agli organi giurisdizionali. Ma, quando l’azione di tali organi giungerebbe tardiva e quindi inefficace, è inevitabile usufruire della stessa logica per la quale è riconosciuto al cittadino il diritto naturale di autodifesa9.
Solo nella concezione dello Stato libero – che considera i cittadini legati alla Stato da un rapporto giuridico e non da un vincolo di sudditanza, ritenendoli quindi soggetti non solo di doveri, ma anche di diritti nelle loro relazioni con lo Stato – è ammissibile, accanto all’esistenza di diritti pubblici statuali, il riconoscimento da parte dello Stato di diritti pubblici individuali.
Fatte queste considerazione occorre in questa sede delineare l’opportunità, qualora si renda necessaria, di praticare la diffida ad adempiere.
Posto che in presenza di richiesta espressa del contribuente, l’Amministrazione ha l’obbligo di avviare e concludere il procedimento, e ciò in base ai principi generali della legge sul procedimento amministrativo – legge n. 241/1990, art. 2 – e in ragione dei principi generali dello Statuto dei diritti del contribuente – legge n. 212/2000, art. 7 – in base ai quali l’Amministrazione Finanziaria ha l’obbligo di rispondere e motivare la risposta10, ci si chiede quale sia lo strumento più efficace qualora si presenti una situazione di inerzia della Pubblica Amministrazione e entro quali limiti sia possibile far riferimento al Giudice Penale.
La diffida ad adempiere, ex legge 241/1990, è sicuramente lo strumento più idoneo e valido al fine di intimare l’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell'atto illegittimo nel termine stabilito dalla legge che solitamente nel campo tributario è di 30 giorni.
Nel caso in cui l'Amministrazione finanziaria dovesse violare i precetti della Legge 241/1990 e nella fattispecie dell'intimazione, si consuma il reato omissivo proprio del delitto ex 328 cp, rubricato “omissione o rifiuto di atti d'ufficio”.
Ai fini della configurabilità del reato di omissione di atti di ufficio, di cui all’art. 328, 2°comma, cp, la richiesta del privato, anche se non vincolata a particolari formule, deve essere espressa e diretta al pubblico ufficiale titolare del potere-dovere di compiere l’atto, e non alla pubblica amministrazione in genere, e ciò non solo per il principio di personalità della responsabilità penale, ma anche in forza della stessa disciplina sul procedimento amministrativo.
In tema di omissione di atti d’ufficio è necessario che la richiesta del privato debba atteggiarsi sostanzialmente come una diffida, non potendosi assegnare il medesimo valore ad una formale richiesta di sollecito. La diffida ad adempiere deve quindi essere rivolta ad accelerare l’adempimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono.
Il reato si consuma quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto o senza che il mancato compimento sia stato giustificato. E’ importante sottolineare che il reato stesso non è configurabile, quindi, quando la richiesta non sia qualificabile come diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest’ultimo immediatamente valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto (così come avviene, ad esempio, nel caso di semplice richiesta di informazioni o di chiarimenti).
In ultimo si sottolinea che integra il reato di omissione di atti d’ufficio la mancata comunicazione da parte della Pubblica Amministrazione, entro trenta giorni della richiesta dell’interessato, a norma dell’art. 25 della legge 241/1990, dell’unità organizzativa competente e del nominativo del responsabile del procedimento.
Se ci si volesse addentrare, e non è questa la sede giusta, nella ricerca della previsione che sta alla base del 2° comma dell’art. 328 cp, occorrerebbe partire sicuramente dal principio per il quale ad una richiesta di un privato, di un cittadino, di un contribuente corrisponde e deve corrispondere il dovere di dare risposte da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ove quelle richieste riflettano un interesse personale identificabile in una posizione giuridica soggettiva di diritto soggettivo o di interesse legittimo.



1
Secondo l'opinione maggioritaria, le questioni di giurisdizione dipendono dalla natura della situazione soggettiva per cui si chiede tutela. Di qui la questione se, di fronte al diniego di autotutela, il cittadino sia titolare di una situazione di interesse legittimo o di diritto soggettivo. L'argomento verrà trattato nelle pagine seguenti.

2
Enrico De Mita, Principi di diritto tributario, III edizione, Giuffrè, 2002, pag. 37 e ss..

3
In prima battuta il diritto tributario si avvicina sotto numerosissimi profili a quello amministrativo e ciò è anche confermato dalla genesi storica di questa materia che non si è differenziata in modo apprezzabile rispetto al diritto amministrativo fino a che non si sono gradualmente affermate, per ragioni di carattere economico politiche, la disciplina legale della prestazione tributaria e l’applicazione dei tributi col criterio dell’autoliquidazione da parte degli stessi contribuenti. Con l’affermarsi della disciplina legale dell’imposta e, quindi, della non disponibilità da parte dell’amministrazione degli interessi economico-sociali coinvolti nel prelievo, parte della dottrina ha dubitato che ci si trovi di fronte all’esercizio di poteri pubblici alla luce della carenza di discrezionalità nella determinazione dell’imposta. All’amministrazione finanziaria non è insomma dato considerare ai fini della determinazione dell’imposta convenienze sociali, economico e di occupazione, le condizioni personali e familiari del contribuente o la rilevanza sociale dell’attività da esso svolta: solo in linea di mero fatto il funzionario può essere indotto a tener conto di questi aspetti che non potranno però assurgere formalmente a giustificazione ufficiale delle sue decisioni”. Lupi, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, pagg. 2648-2649.

4
Cfr. D’Agostino, Autotutela tributaria, excursus normativo, giurisprudenziale ed effettiva applicazione dell’istituto, pag. 4988.

5
Cfr. G. Giuliani, Diritto Tributario, terza edizione, Giuffrè, 2002, pag. 25.

6
Cfr. Tesauro, Compendio di diritto tributario, pagg. 84-85.

7
Cass. sent. n. 8854 del 21/08/1993

8
Cfr. Antico – Carriolo – Fusconi – Tucci – Zappi, L’accertamento fiscale, pag. 341.

9
Thomas Hobbes – Giusnaturalismo – The Leviathan

10
L’istituto dell’autotutela nel settore tributario non prevede l’applicabilità della figura del silenzio-rifiuto, Cfr. Circolare n. 3/22993 del 1999 della Direzione Regionale delle Entrate della Lombardia; Sentenze n. 7388 del 27/03/2007 e n. 16776 del 10/08/2005 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; Sentenza n. 40 del 2008 Ctr di Brindisi.








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